Era una fredda mattina d'inverno e la città era avvolta da una fitta, impenetrabile e pallida nebbia, quando Luigi, appena sceso dal treno e infreddolito nel suo caban, mandò un breve messaggio al nipote Piero, per poi rimettersi il borsone in spalla, scendere dai gradoni della stazione, attraversare il piazzale e incamminarsi all'imbarcadero. Fatto il biglietto l'uomo salì un bordo e lanciò il bagaglio voluminoso sui primi due sedili vuoti che trovò; poco dopo venne sballottato dal rombo metallico dei motori e il natante scostò dalla banchina. Luigi si appoggia con la testa al vetro e con un'espressione amara scrutò fuori. Alla prima fermata il vaporetto attira davanti all'ormeggio di una fila di sbilenche barche nere facendole ondeggiare, lo scintillio dei loro metalli attirò la sua attenzione, erano delle gondole: la vita di Luigi era legata da sempre a quelle imbarcazioni. Rapidamente, con l'occhio critico da esperto, il passò in rassegna esaminandole tutte, dal rostro di prora sino al riccio di poppa. Poi, quando il mezzo ripartì imbarcando un flusso disordinato e chiassoso di studenti, operai, servizi, massa e turisti, Luigi si accovacciò alla paratia serrando gli occhi. Stanco dal lungo viaggio, assopito e cullato dallo sballottio delle onde si isola dal mondo, sprofondando nei suoi pensieri. Il vaporetto stipato all'inverosimile, riprese la sua corsa a lento moto su un mare fluttuante grigio perla, lasciandosi alle spalle le ombre ei contorni sfumati di mattoni rossi di calle e palazzi. Quando il traghetto passò sotto l'ultimo ponte, prima di entrare nel Canal Grande, il conducente suonò per tre volte la sirena scuotendo Luigi dal suo dormiveglia. L'uomo ricomponendosi si stropicciò gli occhi e tornò a osservare oltre la vetrata: Venezia d'inverno gli incuteva da sempre soggezione e una velata tristezza.
Piero, dall'altra parte della laguna, lasciò il bar quando l'orologio del campanile del sestiere rintoccò le otto precise. Il freddo e l'umidità gli attraversarono la tuta sportiva in acetato, entrandogli pungenti nelle ossa; intorpidito imprecò contro il tempo. Saltellando e sfregandosi le mani rientrano nel locale e si fa servire un altro caffè corretto. Il giovane uscì temprato accendendosi una sigaretta, espirò il fumo e respirò a pieni polmoni l'odore del salmone, si coprì il capo con un pesante berretto di lana rossa ed estrasse lo smartphone dal marsupio. Era tempestato di messaggi e la bionda canadese noto due giorni prima di aver lasciato uno sdolcinato vocale. Piero era un gondoliere, uno dei più bravi ed esperti della laguna, nonché grande amatore degno di Casanova, almeno così lui si definiva vantandosi con gli amici. La sua gondola per lui era come la sua vita, ambigua e galeotta, portatrice di passioni e veicolo d'illusioni amorose. La chiamava per nome la sua barca: Lisetta. Con un ghigno soddisfatto lesse anche il messaggio dello zio: “Muso da mona sono arrivato!” . A passo svelto, mani in tasca e cicca in bocca, tra i rumori ovattati di una città che si sta lentamente sorvegliando si recò al piccolo cantiere di famiglia. Era euforico, tra un paio d'ore sarebbe arrivato lo zio Luigi.
Venezia, pur non essendogli mai stata crudele, a Luigi metteva soggezione ogni qualvolta che doveva tornare, non importava se fosse la bella stagione dei turisti o quella nebbiosa mattina di febbraio, i rimorsi ei sensi di colpa da sempre lo divoravano. Come tutte le altre volte che aveva fatto ritorno in laguna i ricordi della sua gioventù riaffioravano impetuosi, creandogli un senso di vergogna per essersi avvicinato troppo presto e per così tanto tempo dai suoi parenti e dalla sua città natale. Erano ormai trascorsi più di vent'anni da quando litigò furiosamente con i genitori lasciato lo squero di famiglia per imbarcarsi come marittimo su un carico diretto nelle Americhe; ne trascorsero altri cinque, da quando il padre morì consegnando in eredità il cantiere al fratello maggiore. Luigi quella mattina rientrava in città per rimanervi, per stare vicino all'anziana madre e con i risparmi da marittimo aprirono l'acquisto insieme al nipote Piero. Smerciare Venezia, quello sarebbe stato il suo destino, magari mandando su tutte le furie il fratello Luca vendendo orribili gondolette di plastica ai turisti.
La piccola porta arrugginita era l'accesso tramite terra per accedere allo squero. L'officina di Luca era una casetta dal tetto in legno aperta su un lato e con un pianoforte inclinato verso il rio per la messa in mare delle barche. Luca era all'interno dell'officina già dalle sei del mattino, il cantiere era tutta la sua vita. Era cresciuto allo squero e già dall'età di otto anni, in compagnia del fratello Luigi di pochi anni più piccolo, aiutava il padre e il nonno nell'arte di costruire e assemblare scafi. Era un maestro d'ambasciata specializzato in gondole, ma non solo, tutto ciò che aveva bisogno di una rimozione per muoversi in laguna lui lo pensava, progettava e costruiva. Fisico imponente Luca, un metro e novanta di muscoli e di nervi, schiena larga e mani callose. L' uomo era conosciuto nel sestiere come un personaggio burbero, schivo e di poche parole. Impassibile al freddo e all'intemperie a discapito dei suoi sessant'anni girava sempre a maniche corte, sporco del suo lavoro: olio, vernice e segatura. Lui, non si limita alla sola progettazione delle gondole seguendo scrupolosamente gli antichi insegnamenti, la costruzione e l'assemblaggio con passione e amore, corteggiandole sino ad arrivare a possederle, per poi comprenderne ogni loro piccolo capriccio, passato mesi interi incurvando, carteggiato, levigando e levigando e modellando i legni pregiati della fascia con ossessione maniacale. Solo quando il grosso pesce di legno nero, lungo dieci metri, largo uno e mezzo e pesante cinque pezzi era finito di tutto il punto è ritenuto soddisfatto per poi concedersi il meritato riposo. Al figlio Piero, l'onere e l'onore del varo. Piero, esperto esperto e campione di decine di regate storiche, battezzava tutte le gondole costruite dal padre, provandole insieme al futuro proprietario nello specchio d'acqua d'innanzi lo squero. Quello era un rito propiziatorio, un momento di gioia nel quale anche l'arcigno maestro d'ascia sorrideva compiaciuto nell'ammirare il figlio che disegnava svolazzi armoniosi di acqua sull'acqua.
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