Nelle aiuole, lungo il muro del cortile del castello, le rose sbocciavano da primavera ad autunno. Quando al tramonto il cortile s’infiammò di un acceso rosso estivo, Giulio lasciò per un attimo i suoi compagni di squadra e si avvicinò al roseto. Strappò una rosa avorio e l’appoggiò sopra il borsone d’allenamento. Il campo da gioco nel cortile dell'antico maniero era più di quanto suggestivo Giulio si poteva immaginare per la sua ultima partita della sua lunga carriera. Le “fucilate” del tambass riecheggiavano nei grandi spazi del Castello, tra mura e bastioni, mentre le due squadre dei due rioni del paese, tra insulti e sfottò, si stavano scaldando. La stagione ufficiale di Giulio era finita un mese prima con il suo definitivo ritiro agonistico, ma il derby paesano di fine agosto in onore della festa del patrono era qualcosa che andava al di là della sua passione per il tamburello che ormai durava da quarantacinque anni: una vita da battitore. Era lì in quel campo sbilenco di terra battuta non regolamentare, per via di quel lungo muro di fiori, che in lui, come in tanti altri bambini del paese era nata la passione per quell’antico gioco dal sapore “Incas”. Il cortile era la sua Cuzco, il suo regno, e lui e i giocatori per quei diciannove giochi erano gli eroi assoluti della folla urlante che assiepava i bordi del campo. Se il bellissimo e modero sferisterio della sua società sportiva gli aveva regalato gioie e gloria, niente gli dava più emozione di giocare nel Castello: per il suo rione e per la sua gente.
Il suo quintetto era affiatatissimo, campione indiscusso da tre anni. I Blu di Giulio erano capitanati da Oreste, ma per tutti il Marchese, un mezzovolo di grande esperienza nonché l’atleta più anziano del borgo. Al Castello il fattore campo contava poco, in quanto ogni giocatore sia dei Blu che del rione dei Bianchi conosceva ogni centimetro del muraglione e quindi ogni possibile traiettoria che la palla rimbalzandovi sopra poteva prendere. Nel Catello la differenza la facevano la grinta, la determinazione e la voglia di vincere. Le due squadre erano sospinte e incoraggiate dal campanilismo pittoresco ed esasperato dell’intero paese; l’entusiasmo e l’accanimento a bordo campo era tale d’accendere gli spiriti roventi dei giocatori con il disperato arbitro di turno che immancabilmente era impegnato a spegnerli. Giulio, tra gli abbracci e l’affetto dei suoi tifosi, si diresse verso la piccola tribuna a bordo campo. “Questa è tua”, disse Giulio allungando alla madre la rosa color avorio e ricevendo in cambio dalla donna un dolce e amorevole sorriso. Quando si accesero i riflettori il Marchese richiamò in cerchio la sua squadra.
“Forza ragazzi… Questa notte non la dimenticheremo. Loro sono migliorati molto, ma noi siamo i campioni. Forza Blu!” Urlò il Marchese ai suoi compagni di squadra.
Il tramonto aveva lasciato dietro di sé un intenso aroma di tigli in fiore, d’ l’erba e d’uva selvatica, e per un lungo attimo Giulio chiuse gli occhi e respirò a pieni polmoni quell’aria ricca di profumi, ma poi, il bagliore delle luci artificiali gli ricordò che era lì per giocare e vincere: era la notte del tambass.