Paraphrasing and decontextualizing the title of the Chinese treaty on military strategy, "The art of war" is also what Lubitsch tells us (in his own way) in "To be or not to be". Where by art we can only mean that of the fiction of the mise en scène. In this furrow, in this fleeting border between reality and fiction, the protagonists of a film that I would define very refined forerunner of the current spy-comedies move skillfully, which, unfortunately, today, have lost the subtle, elegant and ironic sagacity, typical of that 'Lubitsch touch ', expression with which Billy Wilder defined the original authorial imprint of the German director. In this direction the game of identities is already announced by the title of Shakespearean matrix, to then take body and space in the equivocal and ambiguous relationships that immediately and unconsciously refer to those same dramaturgical mechanisms typical of both Scarpetti's and Pirandelli's theater.
What they have in common is the idea of a reality that can be recited and a farce that, if misunderstood, modifies reality. With Lubistsch, as with no one before him, Europe, close to the invasion of Poland in '39, truly becomes a "theater" of war. An open-air stage, the size of a continent, in which a company of actors identifies a possibility of salvation in masking and comedy. Here, traveling on the double theater / life track, the wagon of this ideal train tries to get away from the greatest tragedy of the twentieth century to rescue its passengers.
Far from the final destinations of the gates of Auschwitz - Birkenau, to land in those stations where the motto of 'welcome' would recite - in the wake of the bitterly ironic lubitschana perspective - "Arbeit (des Schauspielers macht frei)", 'The work (of actor) makes you free '. Because this is the director's ability to make tragedy his own to the point of playing it down in a play of roles with carnival tones.
To overturn the hierarchies even just by changing the point of view to tell a warlike reality capable of conquering the tables of the stage like the European territories. When reality surpasses fiction, theater can only leave room for history and present it rather than represent it. Not without giving the viewer the opportunity for a laugh that sounds like the redemption of the vanquished.
ITA
Parafrasando e decontestualizzando il titolo del trattato cinese di strategia militare, “L’arte della guerra” è anche quella che ci racconta (a modo suo) Lubitsch in “To be or not to be”. Dove per arte non possiamo che intendere quella della finzione della mise en scène. Il questo solco, in questo labile confine tra realtà e fiction si muovono abilmente i protagonisti di un film che definirei raffinatissimo antesignano delle attuali spy-comedy che, purtroppo, oggi, hanno perso la sottile, elegante ed ironica sagacia, propria di quel ‘Lubitsch touch’, espressione con cui Billy Wilder definì l’originale impronta autoriale del regista tedesco. In questa direzione il gioco delle identità viene annunciato già dal titolo di matrice shakespeariana, per prendere, poi, corpo e spazio nelle relazioni equivoche e ambigue che immediatamente e inconsciamente rinviano a quegli stessi meccanismi drammaturgici propri tanto del teatro scarpettiano, quanto di quello pirandelliano.
Ad accomunarli, l’idea di una realtà che po’ essere recitata e di una farsa che, se fraintesa, modifica la realtà. Con Lubistsch, come con nessuno prima di lui, l’Europa a ridosso dell’invasione della Polonia del ’39, diventa davvero ‘teatro’ di guerra. Un palcoscenico a cielo aperto, grande quanto un continente, in cui una compagnia di attori individua nel mascheramento e nella comicità una possibilità di salvezza. Ecco che, viaggiando sul doppio binario teatro/vita, il vagone di questo treno ideale tenta di allontanarsi dalla più grande tragedia del Novecento per portare in salvo i suoi passeggeri.
Lontano dalle destinazioni finali dei cancelli di Auschwitz – Birkenau, per approdare in quelle stazioni in cui motto di ‘benvenuto’ reciterebbe – sulla scia dell’ottica amaramente ironica lubitschana – “Arbeit (des Schauspielers macht frei)”, ‘Il lavoro (dell’attore) rende liberi’. Perché di questo si tratta, della capacità del regista di far propria la tragedia al punto da sdrammatizzarla in un gioco di ruoli dai toni carnevaleschi.
Capovolgere le gerarchie anche solo cambiando il punto di vista per raccontare una realtà bellicosa capace di conquistare le tavole del palcoscenico come i territori europei. Quando la realtà supera la finzione, il teatro non può che lasciare spazio alla storia e presentarla, piuttosto che rappresentarla. Non senza concedere allo spettatore l’occasione di una risata che suona come il riscatto dei vinti.